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La mia musica sei tu..  di Alessandra Angelini

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silviaLo specchio del tempo

 

di

 

Silvia Devitofrancesco

 

Romanzo

Copyright © 2016 Silvia Devitofrancesco

Proprietà letteraria e artistica riservata. Tutti i diritti sono riservati. Vietata la riproduzione.

Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone, reali, viventi o defunte è puramente casuale.

SILVIA DEVITOFRANCESCO

Lo specchio del tempo

 

Prefazione

 

La storia è una forza misteriosa. Segna inevitabilmente la vita di quanti popolano la terra. Ne registra ogni avvenimento, ogni gioia e ogni dolore, costituendo la memoria di un popolo o di una regione.

La parola “storia” è generalmente associata alla lezione scolastica, all’esame universitario o ai grandi personaggi che l’immaginario collettivo contribuisce a plasmare e a trasformare in miti. Tuttavia, ogni persona il cui cuore batte ogni giorno, è grande, anche se non ha ricevuto l’appellativo magnus. È grande per il semplice fatto che vivendo, è in grado di produrre storia.

Questo mio romanzo è incentrato proprio su questa visione “piccola” della storia.

Le mie protagoniste sono due donne comuni, vissute in epoche lontane tra loro e con abitudini e stili di vita completamente differenti, sono legate da un destino molto simile, simboleggiato dal fatto che entrambe portano lo stesso nome. Esse si troveranno a riflettersi l’una nell’altra, come davanti a uno specchio del tempo.

In questa sede preciso che al fine della stesura di questo romanzo, non ho fatto riferimento a personaggi storici reali, fatta eccezione per Federico II di Svevia e la sua sesta crociata svoltasi negli anni 1228-1229. Preciso inoltre che il manoscritto del quale si parla nel romanzo è frutto di pura invenzione letteraria, così come il convento nel quale gran parte della vicenda è ambientata.

Spero che questo mio romanzo fatto di “corsi e ricorsi”, per dirla alla vichiana maniera, possa essere letto come pura forma di evasione dalla realtà e magari, possa far appassionare, quanti non lo sono ancora, al mondo dello studio dei codici manoscritti. Un mondo complesso, ma degno di diventare patrimonio culturale comune e non scelta di pochi.

Ringraziando voi, miei cari e pazienti lettori, per avere tra le mani questa opera, vi auguro buona lettura.

 

Silvia Devitofrancesco

 

Tempo: solco delle nostre vite.

Storia: visione concreta delle nostre vite

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Capitolo I

 

Aprile 2001

 

Una vita che cresce nel ventre di una donna è uno dei misteri più affascinanti ed entusiasmanti che si possano vivere. Un piccolo seme che pian piano prende forma. Le gambe, le braccia, il cuore che batte con tanta energia, con tanta voglia di vivere. Si plasmano sogni, desideri, aspettative e ogni vita che nasce è un piccolo fiore su un prato, una stella pronta a brillare, un’entità capace di provare e regalare emozioni.

Si suol dire che il destino di una persona sia scritto nel nome che porta. Nomen omen come dicevano gli antichi romani. Oggi, da madre, devo ammettere che scegliere il nome per il proprio figlio è davvero difficile. È una responsabilità. È un’azione alla quale, in caso di errore, non si può porre rimedio. Portare un nome che non piace a se stessi, a volte, può diventare un vero problema psicologico e per certi versi, è quello che ho provato io sulla mia pelle.

Il mio nome è Erminia. Fu scelto da mio padre Dante, professore di letteratura italiana ed esponente di una delle famiglie più importanti di Bari. Mio padre era un uomo austero, d’altri tempi. Da piccola lo definivo affettuosamente “uomo grigio”, poiché il colore dei suoi capelli ben si abbinava a quello dei suoi abiti. Serio, rigido e inflessibile, non sorrideva mai. Ogni mattina, dopo aver annodato accuratamente la sua cravatta, afferrava la ventiquattrore e usciva di casa. Apriva l’imponente portone di legno di un palazzo d’epoca situato in Corso Vittorio Emanuele, nelle vicinanze del Teatro Piccinni, salutava con un cenno della mano l’autista che gli teneva la portiera della macchina aperta e si dirigeva verso il Liceo Classico “Flacco”, pronto per una nuova giornata carica d’interrogazioni e brutti voti.

Mio padre era un perfezionista. Ricercava la perfezione la pretendeva da tutti, specie dai suoi allievi. Io non ho mai condiviso questa sua mania e giurai a me stessa che non avrei mai seguito le sue orme.

Mia madre, Ester, molto più giovane di lui, era una donna adorabile. Il suo opposto. Si era iscritta all’università, Facoltà di Medicina, se non erro, ma nonostante la buona volontà, non era riuscita a laurearsi e aveva preferito intraprendere la carriera di madre. Lei vedeva il mondo a colori. Amava sorridere e chiacchierare con tutti, senza fare distinzioni sociali, almeno in apparenza. Riusciva a fingere, ecco. Dolce, affettuosa, di buona compagnia, era il mio punto di riferimento. A lei confidavo i miei timori e i miei dubbi. Con lei parlavo di sogni e progetti futuri.

Ormai divenuta una giovane donna, mi chiedevo spesso come mai due persone tanto diverse fossero riuscite ad andare d’accordo. Desideravo conoscere la ricetta segreta e così, un pomeriggio d’inverno, mentre mio padre era a scuola, decisi di parlarne con mia madre. La sua risposta, ma soprattutto, il racconto che ne seguì, mi gelarono il sangue nelle vene.

«Vedi, Erminia, ci si abitua. Bisogna imparare a conoscere l’altro.»

Non ero soddisfatta di questa sua risposta sbrigativa e proseguii.

«Come hai fatto a capire che papà era l’uomo giusto per te? Il tuo principe azzurro?»

Vidi il volto di mia madre sbiancare. Spalancò gli occhi e iniziò a strisciare le mani sudate sulla gonna che indossava.

«Erminia» esordì, «è difficile da spiegare. Io non trovo le parole per dirtelo.»

«Sono grande ormai, mamma!»

Lei annuì col capo, respirò profondamente e riprese: «Non è stato come tu immagini».

«Cosa intendi dire?» continuai con un tono incalzante.

«Intendo dire che io non ho perso la testa per tuo padre» disse, mentre il suo sguardo diveniva serio e crucciato.

«Non eri innamorata di lui?» le chiesi innocentemente, mentre capivo perché non vedevo mai i miei genitori abbracciati. Non era a causa del carattere austero e schivo di mio padre, ma a causa della mancanza d’amore tra di loro.

Mia madre mi guardò dolcemente e con un sorriso amaro, raccontò la sua storia con mio padre.

«Ero una ragazza molto bella, proprio come te, piccola mia. Lunghi capelli biondi e penetranti occhi del colore del mare e del cielo quando s’incontrano e si baciano.»

Sorrisi dinanzi a questa immagine assai poetica, uscita dalla bocca di una donna sensibile.

«Non posso negare che i ragazzi desiderassero conoscermi. M’invitavano a passeggiare sul lungomare, a feste sulla spiaggia o in vespa, per sperimentare l’ebbrezza della velocità. Era la Bari degli Anni ‘70. Erano gli anni del boom economico. Noi giovani desideravamo essere indipendenti e ribelli, sognavamo un mondo migliore e rincorrevamo l’amore. Non eravamo così diversi da voi, dopotutto» aggiunse con un tono malinconico. Mi sorrise teneramente e proseguì:

«Un giorno scoprii l’amore. Lo trovai in un mio compagno di classe. Mi sentivo sempre su di giri e ben presto, tutti capirono che ero innamorata. Lui si chiamava Antonio. Un bel ragazzo, dai modi gentili, ma con un unico difetto: appartenere a un’umile famiglia. A me non importava. Credevo fortemente in lui e nella forza del nostro puro e innocente amore. Dopo qualche tempo, poco prima dell’esame di maturità, lo presentai ai miei. Successe il finimondo. Non accettavano il fatto che io, figlia perfetta e di buona famiglia si fidanzasse con un ragazzo appartenente a una famiglia di disperati che abitava in una piccola casa in periferia. I tuoi nonni non vollero sentire ragioni. Si facevano beffe del mio amore per lui. Ritenevano che non fossi stata in grado di comprendere l’amore e le sue logiche. Mia madre mi persuadeva nel lasciarlo, poiché non avremmo mai potuto avere un futuro.»

«E tu, mamma, cosa desideravi?» le chiesi provando uno strano disagio.

«Desideravo amare, ma allo stesso tempo volevo essere serena. Lo lasciai per il quieto vivere familiare e di lì a qualche mese, durante l’estate, tuo padre entrò nella mia vita. Fu mia madre a presentarmelo. Era un nostro vicino di casa. Una famiglia di professionisti degna della nostra. Tuo padre era un giovane professore, laureato col massimo dei voti, ma poco esperto della vita fuori dai libri. Conosceva a memoria il repertorio poetico classico, ma non riusciva a sedurre una donna.»

Mia madre sorrideva nel ricordare questi episodi.

«Era un tipo solitario, serio e dotato di un forte senso del dovere. Impacciato, certo, ma allo stesso tempo molto tenero. Il ricordo di Antonio era vivo e fresco in me e non riuscivo ad accettare l’amore di tuo padre. Ancora una volta, tua nonna diede la spinta al destino e mi ritrovai a essere fidanzata ufficialmente con lui.»

Mi sentivo sconvolta, ma riuscii a fingere che tutto andasse bene.

«Avevi dei sogni?» le chiesi.

«Certo, Erminia. Continuai a coltivare i miei sogni. Suonavo il piano e scrivevo racconti e poesie che sottoponevo alla dura critica letteraria di tuo padre. Col tempo abbiamo imparato a conoscere i nostri pregi e difetti e la tua nascita è stato l’evento che mi ha fatto innamorare di lui. Lo amavo, perché mi aveva dato la possibilità di diventare madre. Scelse per te il nome Erminia, in onore del suo poeta prediletto, Torquato Tasso. Tuo padre era convinto che Erminia sarebbe stato il nome giusto per te. Era sicuro che saresti diventata  una donna bella, intelligente e leggiadra, non come Clorinda che muore per mano dell’uomo del quale si era invaghita. Per tuo padre l’amore non è la forza motrice dell’universo, ma ne è solo uno sbiadito contorno.»

Sorrisi rivolta a mia madre. Mi alzai dal divano e mi chiusi in camera con gli auricolari nelle orecchie e tanti pensieri nella testa. Quella sera promisi a me stessa che avrei amato indipendentemente dalle diverse realtà sociali e che non avrei mai sofferto a causa dell’amore. Chiusi gli occhi e alzai il volume del walkman. La musica assordante invadeva tutto il mio corpo. L’immagine di mia madre era fissa, immobile e passiva, proprio com’era stata costretta a comportarsi.

Una mano ruvida afferrò il mio braccio in maniera decisa. Spensi il lettore musicale, tolsi gli auricolari e riaprii gli occhi. Mio padre era in piedi e mi fissava con uno sguardo penetrante.

«Ciao papà, sei tornato! »

«Non devi isolarti dal mondo, Erminia. È mezz’ora che sto cercando di parlarti!» replicò con un tono severo.

«Scusa papà, dimmi.»

«Come è andata a scuola, oggi?» mi chiese.

«Benissimo. Ho preso otto al compito di latino. Si trattava di una versione tratta dagli Annales di Tacito» risposi sorridendo, soddisfatta di me stessa.

«Bravissima, Erminia. Sono fiero di te. Al prossimo compito impegnati maggiormente. Cerca di conquistare il nove, cosicché tu venga ammessa alla maturità con un’eccellente media.»

«Lo farò» risposi con un tono seccato.

«Forza!» mi diede un’impercettibile carezza sul braccio – per lui un grande gesto d’affetto – e uscì dalla mia stanza.

Guardai la porta chiusa sulla quale erano attaccati vari adesivi ed esclamai ad alta voce:

«Ti importa solo questo di me, non è vero, papà?»
Capitolo II

 

Frequentavo lo stesso liceo nel quale insegnava mio padre; una scuola importante e scelta da buone famiglie dove tutti m’identificavano come “Erminia, la figlia del professore”. Tendenzialmente mi davano fastidio le etichette, ma questa, in modo particolare, non riuscivo proprio a sopportarla, così come odiavo tutti quelli che mi chiedevano il motivo per il quale mi chiamassi Erminia. Detestavo il mio nome al punto che ogni volta che ero costretta a presentarmi, arrossivo e lo pronunciavo in fretta. Se mai un giorno fossi riuscita a diventare madre, avrei scelto per mio figlio un nome del quale andare fieri, ma molto semplice e poco snob. Ero convinta, infatti, che il mio nome derivasse dalla mania di protagonismo di mio padre che così era riuscito a mostrare al mondo quanto la sua famiglia fosse di ceto elevato, di ottimo livello culturale e amante della poesia.

Mio padre mi aveva trasmesso la passione per le lettere. Quando ero piccola, ogni sera, si sedeva sul bordo del mio letto per raccontarmi le storie della mitologia e non le favole di Biancaneve o Cenerentola come fanno tutti, poiché lui non era “tutti”. La mia casa era colma di libri classici e gli argomenti di discussione a pranzo vertevano principalmente sul rapporto difficile tra i giovani e la letteratura antica. Io però, a differenza di mio padre, ero attratta anche dalle epigrafi, dalle iscrizioni e soprattutto, dai codici manoscritti. Trascorrevo ore sul Web leggendo documenti riguardanti i vari tipi di scritture o di fascicoli. Desideravo ardentemente avere la possibilità di sfiorare almeno uno di quei codici medievali per apprezzare, oltre che il testo, anche l’odore e la consistenza della pergamena. In particolare mi focalizzavo sul colophon, posto al termine dell’opera. Uno “spazio creativo” nel quale il copista lasciava informazioni su di sé e sul suo lavoro. Era come entrare direttamente nella società del tempo, ma da una porta secondaria, poiché la mano dell’amanuense ne costituiva un filtro.

Questa passione mi rendeva unica e soprattutto, assai diversa dai miei compagni di classe che non disdegnavano le serate in discoteca. A me la discoteca era tassativamente vietata, ma spesso capitava che non uscissi nemmeno di casa per restare a leggere alcune notizie riguardanti un codice da poco ritrovato casualmente a Bari, ma non ancora studiato. Era stato definito il “manoscritto ignoto”.

La mia compagna di banco, Stefania, giunta al culmine dell’esasperazione, un giorno, all’uscita di scuola, cercò di farmi tornare alla realtà presente.

«Erminia, ti prego. Stiamo studiando tantissimo in vista della maturità, svagati un po’.»

«Ti do fastidio, forse?» le risposi seccata.

«La vita è una e non puoi trascorrere il tuo tempo tra libri di scuola e libri scritti nel Medioevo. La tua vita è qui, nel presente. Cosa racconterai ai tuoi figli? Dirai loro che non hai vissuto per rincorrere il passato?»

«Non capisci!» la attaccai, ormai adirata. «La vicenda di quel manoscritto ritrovato per caso durante alcuni scavi nella città vecchia, tra i resti di un palazzo signorile distrutto durante l’ultima guerra mondiale, è come una calamita per me. Non so spiegarti il motivo.»

Stefania mi guardò come se fossi stata una folle.

«Basta! Ti stai rovinando la salute. Tua madre è una martire! Non so come faccia a sopportare ogni santo giorno te e tuo padre.»

La guardai malissimo e urlai: «Io non sono come mio padre!»

Lei continuò con un tono pacato e tranquillo, mentre sorrideva pensando al suo fidanzato.

«Ne sei sicura? Io dico che non sei poi tanto diversa da lui.»

Non le risposi. Afferrai lo zaino che avevo appoggiato a terra e senza nemmeno salutarla, mi avviai verso casa.

L’incubo maturità era sempre più vicino e la mia ansia aumentava ogni giorno. Invidiavo Stefania e chi come lei, riusciva a essere indifferente, come se questa importante prova di vita fosse solo un gioco. Io, invece, non riuscivo a essere così serena. Sentivo, su di me, il peso delle pressioni di mio padre e delle aspettative di mia madre. Purtroppo, sono figlia unica. Nessun confronto e nessun metro di paragone. Nessuna possibilità di sbagliare. Il figlio unico è diverso dagli altri. È un figlio dalle mille risorse. Un figlio razionale, che non può commettere sciocchezze né comportarsi in modo immaturo. Sempre pronto ad assecondare i genitori per non deluderli. Dotato di una sensibilità straordinaria, ma allo stesso tempo, dal carattere fermo e deciso.

Aggiunsi un altro post-it, di colore fucsia, sul cartellone degli errori da evitare che avevo creato qualche mese prima e che avevo appeso in camera, sulla parete di fronte al letto, in modo da essere la prima cosa da guardare a ogni risveglio, “Mai dare la vita a un solo figlio”.

Aprii il libro di Filosofia e iniziai a studiare Kant mentre sbadigliavo, visibilmente annoiata. Non so quanto tempo trascorsi nel contemplare la stessa pagina quando il suono del cellulare – ebbene io ero una delle poche persone che potevano permettersi un cellulare – mi fece tornare alla realtà di quel pomeriggio primaverile. Un nuovo messaggio. Il numero del mittente era a me sconosciuto, aprii la busta virtuale e lessi il suo contenuto:

Ciao Erminia, sono Giulio di III B. Mi ha dato il tuo numero la tua amica Stefania. Ti aspetto stasera alle otto in punto alla pizzeria che si trova esattamente a due isolati da casa tua. Non mi bidonare!

Rimasi di ghiaccio. Giulio di III B era considerato uno dei ragazzi più belli della scuola. Molte studentesse nutrivano una visibile ammirazione per lui. Lo incrociavano al bar, lo incontravano, volutamente, nei corridoi e lo ammiravano in tutto il suo splendore. Tra queste c’ero io. Fu una sorpresa per me quell’invito. «Che modo bizzarro adotta per invitare le ragazze a cena!» pensai. Una serata insieme, che prospettiva allettante! Tuttavia, la serata l’avrei dovuta trascorrere con il mio amico Kant… anche se, fingersi malata per una volta in cinque anni non sarebbe stato un peccato mortale! Non capita mica tutti i giorni di poter uscire a cena con Giulio di III B. Risposi al suo messaggio:

Alle 20 puntuale! Se dovessi arrivare anche solo due minuti più tardi, ti do uno schiaffo e me ne vado! Se invece non dovessi arrivare, lo schiaffo te lo darò a scuola!

Lui replicò:

Cercherò di arrivare in anticipo, allora!

Sorrisi soddisfatta. Scelsi l’abbigliamento, optando per qualcosa di molto casual e informale, poco trucco e tanta emozione.

«Mamma, io esco!»

«Dove vai?» mi chiese.

«In pizzeria con Stefania e altri compagni di classe.»

«Hai finito i compiti?»

«Certo» mentii.

«Non fare tardi!»

Fortunatamente mio padre non era ancora tornato. Se avesse deciso di accompagnarmi lui in pizzeria, davvero Giulio di III B sarebbe scappato.

Uscii di casa euforica e quasi saltellando, raggiunsi il ragazzo dei miei sogni. Mi attendeva davanti all’ingresso della pizzeria dalla quale proveniva il caratteristico odore del forno a legna. I suoi ricci, di solito ribelli, erano perfettamente domati. Camminava avanti e indietro sul marciapiede con le mani nelle tasche dei jeans e lo sguardo rivolto verso la strada. Temeva, forse, che non sarei giunta da lui?

«Ciao, bella Erminia!»

Mi diede un bacio sulla guancia e il suo profumo penetrò nelle mie narici. Non mi sembrava vero. Io, Erminia, la figlia del professore, mi trovavo in pizzeria con uno dei ragazzi più fighi del liceo. Incredibile, ma vero.

Dopo cena, Giulio mi fece accomodare sulla sua moto super costosa e guidò tra le vie del centro. Seduta dietro di lui, con mani impacciate e ancora immature, accarezzavo il suo addome scolpito. Non c’erano traffico o particolari rumori, per cui, mentre guidava, riuscimmo a parlare di noi, delle nostre vite e delle nostre abitudini.

«Hai del tempo libero, oppure tuo padre ti assegna versioni di latino extra?» mi chiese, quasi canzonandomi.

«Il tempo libero non mi manca» risposi ridendo e continuai: «Amo leggere. Ultimamente mi sto appassionando agli avvenimenti che ruotano attorno il ritrovamento di un codice manoscritto qui, a Bari».

«Non è tempo libero, questo!» replicò lui interrompendomi.

«È pura passione!» urlai e lui, voltatosi, sorrise falsamente.

«Io, invece, vado spesso in palestra, come sicuramente avrai avuto modo di notare» e intanto mi accarezzava le mani che tenevo strette sul suo torace, mentre sentii le guance arrossarsi. «E adoro uscire con belle ragazze.»

Un’espressione di delusione mista a rabbia comparve sul mio viso: ero per lui solo un pezzo nuovo da aggiungere alla sua collezione.

Giulio mi accompagnò a casa e come da copione, mi baciò. Da quel bacio e soprattutto, da quel breve ma intenso discorso, avevo capito che lui, il ragazzo perfetto di buona famiglia, non era ciò di cui avevo bisogno in quel momento.

La mattina seguente, sebbene impreparata, decisi di andare a scuola. Nel caso in cui fossi stata interrogata, avrei portato a casa il mio votaccio, con la consapevolezza di essermi comportata da ragazzina incosciente. Sulle scale del liceo incontrai Giulio. Jeans all’ultima moda, camicia di felpa e sigaretta tra le labbra. Parlava con i suoi amici, probabilmente stava raccontando loro tutti i dettagli della nostra serata e sicuramente la sua mente stava compiendo un grande lavoro creativo, aggiungendo qualche particolare interessante che contribuisse ad aumentare il suo prestigio di perfetto Casanova. Continuai per la mia strada senza fermarmi. Giulio mi fece un cenno di saluto con la mano, ma io lo ignorai, fingendo di essere assorta nei miei pensieri. I suoi amici, invece, gli si strinsero attorno e gli batterono affettuosamente le mani sulle spalle. Io, Erminia, la figlia del professore, ero riuscita a tenergli testa.

 

Capitolo III

 

Dicembre 1227

 

Avvertivo strane sensazioni. Non riuscivo a definirle con precisione, ma di certo, non erano presagio di buoni eventi. Avevo paura di ciò che sarebbe potuto accadere e avevo paura per me.

Federico II, nipote del Barbarossa, era al potere. Non avevo fiducia in lui e nella sua politica governativa, anche se, bisognava riconoscerglielo, stava avendo il merito di far crescere il prestigio mercantile e culturale di Bari. Si vociferava, purtroppo, che molto presto ci sarebbe stata una nuova guerra, sebbene l’imperatore non avesse amato combattere. Crociata, la chiamavano così. Una guerra dalla giusta causa. Desideravano liberare la Terra Santa dagli infedeli. Nobile causa, ma era sempre lo stesso spargimento di sangue. Chi erano, poi, questi infedeli? Ma soprattutto, chi erano coloro che li attaccavano definendoli tali?

Noi donne non potevamo comprendere i meccanismi politici. Il nostro sentimentalismo era destinato a prevalere sempre. Non riuscivo ad accettare lo spargimento di sangue innocente. Se ci fosse stata la crociata, avrei visto gli uomini partire. Avrei visto madri, logorate dalle lacrime e dal dolore, invecchiare precocemente. Che senso aveva, allora, avere figli, sopportare i travagli del parto, se poi bisognava consegnarli a un triste destino? Probabilmente ragionavo da egoista, ma tutto quel dolore non volevo provarlo.

A quel tempo esisteva una strana logica che governava il mondo umano: il destino di un individuo dipendeva dal suo sesso. Se fosse nato un piccolo uomo, questi, sarebbe stato destinato alla guerra, a un ruolo di prestigio, oppure a mestieri mercantili. Se, invece, fosse stata una piccola donna a nascere, questa sarebbe stata destinata all’oblio e a generare, a sua volta, nuovi piccoli uomini e donne.

Io appartenevo a una famiglia di conti, una famiglia importante, vicina all’imperatore. Ero diversa dalle donne del popolo. Non soffrivo la fame, avevo bei vestiti, la servitù a mia disposizione, ma un cuore gelido e un destino infelice. Il mio palazzo era una gabbia dorata. Non avevo libertà e la malinconia era la mia migliore amica. I giorni e i mesi mi passavano accanto senza che me ne rendessi conto. Ogni nuovo giorno era identico a quello che l’aveva preceduto. E io ero sempre tanto sola. Avevo trovato una via di fuga dalla realtà nei libri. Ero una delle poche donne del territorio a essere in grado di leggere e scrivere. Mio padre aveva preteso che studiassi, ma che non m’interessassi della vita contemporanea. Leggere mi permetteva d’immaginare un mondo libero dalle convenzioni sociali, senza soprusi e prese di potere. Un mondo senza sangue gettato per le vie.

Tenendo il rosario ben stretto in mano, chiedevo a Dio, ovunque Egli fosse, di ascoltare la mia preghiera. Lo invocavo con tutta la forza e la fede che trovavo in me. Basta sangue, basta pianti di bambini orfani: avrebbe potuto prendere me e risparmiare loro. Fui costretta a interrompere la mia preghiera e a chiudere il rosario in un cassetto, poiché mio padre aveva appena bussato alla porta della mia camera da letto. Austero, rigido, fisso nel suo ruolo diplomatico, era in piedi di fronte a me. Le rughe gli solcavano il viso e i dolori gli appesantivano il cuore. Non l’avevo mai visto sorridere, né essere affettuoso nei miei confronti. Aveva sempre visto in me la causa della morte di sua moglie. Lei era morta per darmi la vita. La sua dolce sposa era morta, mentre partoriva una bambina. Il suo sacrificio era risultato vano. Una figlia era un peso per il proprio padre, poiché in quanto donna, necessitava di una ricca dote e di  entrare nel sistema dei matrimoni strategici.

Mio padre non pensò minimamente alla monacazione, ero la sua unica figlia e avevo il compito di continuare a far circolare, se non il nome, almeno il sangue della mia famiglia. Un meccanismo al quale sarebbe stato, per me, molto difficile venire meno.

Mi osservava attentamente, fermo sulla soglia della stanza. Scrutava il mio sguardo, il mio sorriso, le mie fattezze.

«Salve, padre» lo salutai educatamente.

«Herminia, cara, mi fate entrare?»

Mi spostai e lo invitai ad accomodarsi sul divanetto posto ai piedi del mio letto. Tra noi c’era parecchia distanza e un imbarazzante silenzio.

«Padre, ci sarà una nuova guerra?» gli chiesi visibilmente spaventata.

Lui mi guardò impassibile e riprese: «Molto probabilmente ci sarà una nuova crociata, non una guerra. Comunque non sono affari che vi riguardano.»

«Essere donna in questa società equivale a essere un muro senza occhi, senza orecchie e senza sentimenti?» ripresi con un tono impertinente mentre intrecciavo le dita delle mani a causa dell’agitazione.

«Non vi autorizzo a rivolgervi a vostro padre usando questo tono indisponente!» mi rimproverò.

«Chiedo scusa» sussurrai.

Mio padre sembrò non avermi udita. Respirò profondamente, poi guardò dritto nei miei grandi e profondi occhi azzurri e sentenziò:

«Durante la crociata, voi non resterete qui».

Ero allibita. Dopotutto ero affezionata alla mia dolce prigione e non volevo lasciarla.

«Padre, potrei conoscere la ragione di questo allontanamento?» chiesi, mentre gli occhi divenivano lucidi e sentivo il pianto sempre più vicino. Temevo di scoppiare in singhiozzi davanti a lui.

«Preservo la vostra incolumità, figlia mia. Durante la crociata potrebbero accadere eventi spiacevoli. Sarete al sicuro tra le mura di un convento di frati dove nessuno penserà mai di venire a cercarvi. Ho già parlato con l’abate. Vi ospiterà in cambio di una cospicua donazione e di libri per arricchire gli armaria» mi spiegò come se si fosse trattato della decisione più sensata del mondo.

In convento? Non riuscivo a sopportarne nemmeno lontanamente l’idea.

 

ULTIMO ACCESSO ALLEULTIMO ACCESSO ALLE….

Copyright © 2016 Silvia Devitofrancesco

Proprietà letteraria e artistica riservata. Tutti i diritti sono riservati. Vietata la riproduzione.

Questo libro è un’opera di fantasia.  Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone, reali, viventi o defunte è puramente casuale.

 

A tutti gli esseri umani sempre più social.

 

PREFAZIONE

 

In principio furono i graffiti sulle pareti delle caverne, poi i sumeri compirono una stupefacente opera: inventarono la scrittura.

Una vera e propria rivoluzione destinata a essere ricordata nei secoli dei secoli: finalmente gli esseri umani avrebbero potuto comunicare attraverso l’arte della forma scritta. Meraviglioso quanto un Iphone in offerta speciale.

Fu in questo clima che, secoli dopo, i nostri cari fratelli antichi romani coniarono il celebre detto verba volant, scripta manent che permise a tutti gli uomini delle epoche a venire di sentirsi letterati da premio Nobel.

Servirsi della scrittura per comunicare, ammettiamolo, è stata una grande conquista. Pensate un attimo al caro Dante Alighieri: se non fosse esistita la scrittura, come avrebbe fatto a tramandare ai posteri la sua Divina Commedia? E, di conseguenza, come avrebbe potuto Benigni commentarla in diretta su Rai1?

Scrittura non è, però, solo sinonimo di letteratura ma anche d’amore. Anzi di lettere d’amore.

Avete presente le lettere d’amore? Quei testi più o meno lunghi, curati nei dettagli, intrisi di sentimento e di profumo alla lavanda che i dolci innamorati attendevano con trepidazione? Ecco, in quel caso se non fosse esistita la scrittura, non ci sarebbe stato l’amore stesso. Avete mai visto due innamorati che, guardandosi negli occhi, esclamano: «Amore mio, i giorni senza te sono come rami invernali privi di foglie», mentre le dita tremanti spruzzano profumo alla lavanda? Io mai. Siamo seri, è un’immagine fredda e priva di quel pathos che solo la scrittura regala.

Un giorno la strada della scrittura incrociò quella della tecnologia. Fu amore a prima vista. Non servì alcuna forma di corteggiamento che fu subito matrimonio in pompa magna e, udite udite, senza suocera. Se non è fortuna questa!

Come in ogni matrimonio che si rispetti, da questa unione nacquero dei teneri pargoletti, destinati, proprio come i cari vecchi sumeri, a rivoluzionare il mondo umano.

Primogenito fu l’SMS.

Il mondo saltò dalla gioia, dal cielo iniziarono a cadere, come gocce di pioggia torrenziale, fantastiche promozioni che permettevano di aggiudicarsi tantissimi SMS al giorno. Una guerra satellitare. Ovunque, in ogni luogo, si udivano musichette e trilli, gli occhi di tutti erano puntati sugli schermi dei telefonini (si chiamavano ancora “telefonini” o, al massimo, “cellulari” tanto per sentirsi fighi alternativi) e le dita spingevano freneticamente sui tasti.

Risultato? Ci fu un aumento esponenziale dei casi di tendinite acuta, le case farmaceutiche aumentarono la produzione di antinfiammatori, iniziarono a diffondersi le catene con i dieci anni di sfiga incorporati e, cosa più grave, molti simpatici short messages si persero nell’etere. A proposito, se qualcuno dovesse avvistare un SMS di auguri per uno splendido 2005 è pregato di avvisarmi!

Qualche anno dopo la famiglia scrittura – tecnologia si allargò nuovamente. Nacque lui, Facebook il grande. Una bomba in tutti i sensi. Tutti iniziarono a conoscere i fatti di tutti facendo così concorrenza alla redazione del celebre rotocalco Novella2000.

L’arte del pettegolezzo divenne un hobby diffusissimo e super trendy. I ghiotti gossip venivano puntualmente comunicati in chat all’amico di turno, il quale, a sua volta, li comunicava a un altro fidato amico di turno, fino a raggiungere il diretto interessato con conseguente partecipazione al programma Forum.

La fantasia umana fu messa a dura prova: ogni sera, infatti, occorreva organizzare qualcosa di socialmente stimolante e non è mica semplice trasformarsi in PR! Una pizza, una passeggiata, un giro in macchina, qualunque cosa insomma pur di realizzare decine di fotografie degne di un fotografo professionista. Sì, perché l’anima di facebook non sono tanto le parole quanto le immagini e quindi se il soggetto x è una persona riservata che non ama mostrare pubblicamente la sua gallery, diventa automaticamente uno sfigato privo di vita sociale, degno di rintanarsi in un monastero tra i monti.

Nuove abbondanti piogge iniziarono a cadere sulle teste di noi poveri e indifesi cittadini del terzo millennio: i gigabytes sostituirono i tantissimi SMS al giorno e nuovi suoni invasero l’atmosfera.

Facebook, la nuova frontiera dell’esistenza. La nostra vita passata ai raggi x e data in pasto alla rete: Spesa time; Uscita time; Cinema time comparvero sugli schermi dei computer e sui display dei cellulari sempre più grandi e sofisticati.

La scrittura stessa s’impose come nuovo mezzo di conoscenza: «Ciao, sei davvero una bella ragazza, mi aggiungi?»

«Mamma, ho un nuovo amico! Evviva, adesso ho una nuova persona con la quale andare al bar!»

In questa sede, onde evitare spiacevoli malintesi, si chiarisce che per bar s’intende la seguente situazione: cinque o sei persone sedute ai tavolini con nella mano destra un bicchiere, il cui contenuto è stato ampiamente fotografato e postato, e nella sinistra il cellulare (o meglio lo smartphone) per poter informare in diretta gli amici.

Piccolo consiglio, popolo d’internauti: se un vostro amico è assente da Facebook da qualche ora, iniziate a preoccuparvi e rivolgetevi immediatamente alla redazione di Chi l’ha visto?

Fin qui tutto abbastanza “tranquillo” e nella norma, fino a quando, una mattina, una nuova e sconvolgente sorpresa si palesò agli occhi degli accaniti frequentatori del celebre social network. Mi riferisco al tanto temuto visualizzato alle…

Come sicuramente sapete, i messaggi privati su Facebook rivestono un’importanza assoluta in situazioni delicate quali abbordaggi e confidenze. Il visualizzato alle… rappresentò la perdita delle certezze di quanti, pur avendo scritto a una determinata persona da ben dodici minuti, non avevano ottenuto risposta.

Se ipotesi quali: “È a lavoro”; “È impegnato”; “È morto il gatto” sarebbero potute diventare verità universalmente riconosciute, il visualizzato alle… smontava questi tentativi di autoconvinzione come se si fosse trattato dei mattoncini Lego.

La verità divenne, pertanto, una sola: il soggetto x non ha VOLUTO rispondere al soggetto y.

Lacrime, pugni contro il muro, porte sbattute, crisi di panico e pseudo frecciatine quali “La gente è falsa, chi vuol capire, capisca” furono solo alcune delle tante reazioni che gli addolorati manifestarono nei confronti dei traditori DOC, i quali un tempo avevano ricoperto il prestigioso ruolo di grandi amici 4ever.

L’unione scrittura – tecnologia fu nuovamente consolidata grazie alla nascita di un nuovo tenero pargoletto di nome Whatsapp.

Tutti noi oggi viviamo in funzione di Whatsapp; la prima parola che i bambini tra qualche anno impareranno a pronunciare non sarà più “papà” ma “Whatsapp”; persino la Terra gira seguendo l’orbita denominata “Whatsapp”. No, non sto esagerando.

Whatsapp è la nuova frontiera della comunicazione, capace di suscitare dipendenza tanto quanto un pacchetto di sigarette e lo dimostra il fatto che per strada basta un suono acuto per far scattare un controllo di massa al proprio smartphone.

In tempi di crisi, il prodigioso sistema di messaggistica consente un risparmio incredibile nel momento in cui una romantica storia d’amore raggiunge il capolinea. Addio SMS, i fidanzati adesso si lasciano su Whatsapp attraverso un messaggio vocale, decisamente meno freddo delle scontate parole di commiato, oltre che ricordo perpetuo della suadente voce dell’ormai ex partner.

Immaginiamo che una creatura proveniente da un altro pianeta un bel giorno decida di compiere un viaggetto sulla Terra. Cosa si troverebbe davanti agli occhi? Tanti umanoidi con la bocca attaccata al microfono del cellulare intenti a mandare messaggi vocali servendosi del mitico Whatsapp, che almeno, grazie a questa potentissima funzione, preserva le dita dal rischio tendinite. I medici applaudono, entusiasti.

Se con Facebook tutti erano stati colpiti dalla sindrome visualizzato alle…,  con Whatsapp la sindrome è ancor più grave e deleteria.

Bravi, avete colto il nocciolo della questione. È tutta una questione di ultimo accesso alle…

     Una tragedia, un morbo pericoloso più dell’influenza aviaria, un’entità misteriosa sulla quale i filosofi del nostro tempo si stanno interrogando e alla quale verrà dedicato uno speciale di Superquark.

     Perché il soggetto x, pur essendosi collegato, non ha contattato il soggetto y?

Le risposte a questa domanda sono molteplici e vanno dal vittimismo cosmico: “X mi odia”,“X preferisce altri a me” e “X parla con altre persone, ignorando me”, alle ipotesi più suggestive: “Si è verificata l’apocalisse ed io non ne sono al corrente” oppure “È iniziata la Terza Guerra Mondiale e x è stato chiamato al fronte tramite messaggio vocale”, fino a “X è asociale”, “Io contatto ogni giorno tutti i miei amici whatsappini” e “Io dispenso cuoricini e faccine sorridenti, poiché credo nei rapporti interpersonali”.

Scopo di questo libretto è mostrare in maniera ironica – attraverso dodici immaginarie conversazioni su Whatsapp, suddivise per argomenti, con protagonisti personaggi comuni appartenenti a diversi contesti sociali – quanto la nostra esistenza sia sempre più legata al virtuale.

Dedicato a quanti non riconoscono queste applicazioni come mezzi di comunicazione e a quanti, invece, non riescono a privarsene, con l’auspicio di regalare un momento di sana evasione da condividere possibilmente attraverso il tradizionale face to face.

3… 2… 1 spegnete i cellulari (forza spingete senza indugi quel pulsante e lasciate che il mondo reale vi avvolga).

Buona lettura.

 

 

 

AMICIZIA


CONVERSAZIONE N. 1

 

Giada e Sofia, tredicenni in pieno tumulto ormonale, discutono riguardo un concerto.

 

«Ciao, dolce Sofia.»

«Amo, ti stavo pensando.»

Giada ha inviato un’immagine.

«Oddio, non riesco a crederci. Justin Bieber! Tu hai conosciuto Justin Bieber e hai fatto una foto con lui. Devi assolutamente raccontarmi tutto nei minimi dettagli.»

«Oh, amore» Giada inserisce una faccina sognante, «avresti dovuto esserci. È stato meraviglioso, troppo figo. Ho cantato tutte le sue canzoni a squarciagola e ho scattato un centinaio di foto.»

«Ti prego, metti quella con Justin come immagine profilo su fb. Hai idea di quante richieste di amicizie avrai?»

«Io gli sconosciuti non li accetto, però ho impostato la privacy su “pubblica”.»

«Oddio, amo, non riesco ancora a crederci che tu abbia realizzato il tuo sogno. Cioè, dai, hai toccato Justin Bieber e hai parlato con lui. La mia faccia in questo preciso momento è così…»

Sofia ha inviato un’immagine. Questa ritrae una ragazzina dagli occhi colmi di ombretto e mascara assumere un’espressione seducentemente meravigliata.

«Bellissima questa foto, postala su Instagram!»

La ragazzina si assenta un attimo per seguire il consiglio dell’amica.

«Amo, non appena crei l’album su fb avvisami subito così corro a piacizzarlo!»

«Certo, sarai la prima a vedere le mie foto!» Giada inserisce una faccina sognante, «le nostre compagne di classe saranno tutte super invidiose.»

«Ahahah, immagino le loro facce, soprattutto quella di Jennifer. Diventerà verde dalla rabbia e cercherà disperatamente di procurarsi i biglietti solo per imitarti, visto che lei nemmeno sa chi è Justin.»

«Ma non riuscirà ad abbracciarlo come ho fatto io!»

«Certo che no. Lei è così out, si veste come una bambina e ha i baffetti.»

«Davvero?» Giada inserisce una faccina sconvolta. «Non l’avevo notato!»

«Amo, io noto tutto. Posso darti un consiglio?»

«Spara!»

«Metti qui come immagine contatto una del concerto e poi scrivi immediatamente a Jennifer. Fai in fretta però, adesso è online ma tra poco andrà all’oratorio.»

«Tesoro mio, mi sorprendi ogni secondo!» Giada inserisce una faccina super sorridente, «da dove hai appreso questo scoop

«Fb. Forza, va’ sul suo profilo e leggi.»

«D’accordo, mi fido. Andrò sicuramente, ma devo prima prepararmi psicologicamente. Oh, guarda ho appena cambiato immagine contatto e indovina chi mi ha scritto?»

«Ahahah, ho vinto qualcosa?»

«Taci, va’.»

«Ho vinto Justin, vero?»

«Sì, ti verrà recapitato a casa. Sai, quello di cartone che abbiamo visto l’altro giorno davanti al negozio di dischi.»

«Davvero? Grazie, grazie amo, tv1kdb. Inizio a sgombrare la stanzetta!»

«Anche io ti voglio bene, mon amour. Sei speciale!»

«Ed io avrò cura di te!» Sofia inserisce una nota musicale.

«Eh?»

«Lo dice sempre mia mamma, credo sia una canzone.»

«Mmmm, non la conosco. Ne sei sicura?»

«Credo di sì.»

«Cercherò il video su Youtube e ti darò conferma. Ora ti lascio. Ciao, tvb!»

Giada apre il programma di fotoritocco e inizia a sistemare le immagini che andranno a formare l’album fotografico sul suo profilo Facebook.

Sofia, con un’espressione sognante dipinta sul viso,  bacia appassionatamente il poster di Justin Bieber incollato sull’anta interna dell’armadio.

 

 

Ultimo accesso alle 17:50

 

 

la vita è bella perchè finisceLA VITA E’ BELLA PERCHE’ FINISCE

Capitolo 1

 

 

Questa mattina, appena alzata, la prima cosa che ho fatto è stata quella di girare la foto del nostro matrimonio verso il muro.

Avevamo un’aria così felice e solare. Tu nel tuo elegantissimo abito nero, io avvolta in un vaporoso velo immacolato.

Ora non sopporto più la vista del tuo viso così splendente e innamorato, non riesco più a guardarti.

Non riesco a stare nella stessa stanza dove c’è una tua immagine che mi fissa, con quegli occhi verdi come zaffiri, che mi hanno fatto innamorare e nei quali sono annegata.

Non sopporto la vista del mio viso felice, io innamorata persa di te, e non sopporto quella foto nella quale è immortalata tutta la mia gioia.

Non sopporto di vedere, impresso su di un pezzo di carta lucido, l’amore vero, vissuto, andato, perso.

Non sopporto più di vedere quella foto, del giorno più bello della mia esistenza, perché mi ricorda te e perché mi ricorda che ora non sono più felice.

Non la sopporto più e non sopporto più nulla, perciò l’ho girata verso il muro, così i nostri occhi felici non continueranno a fissarmi e torturarmi.

 

 

 

 

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