ERIKA CORVO

Erika Corvo, noi di Destinazione Libri l’abbiamo definita la donna Vulcano, l’abbiamo conosciuta di persona, un pomeriggio con noi e con DeejayfoxradioStation… davvero una bella esperienza.

ERIKA CORVO

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Erika Corvo è un “Fai da Te” umano. Non aspettatevi Miss Universo, perché sono un cesso. A vedermi non mi dareste due lire, ma so fare tante cose, e tutto quello che so fare, l’ho imparato da sola. Sono nata a Milano nel 1958. Madonna, quanto sono vecchia! Sicuramente sono una donna strana: costruisco mobili, aggiusto elettrodomestici, eseguo piccoli lavori di muratura e idraulica, sbianco casa, lavo a mano la biancheria (non  ho la lavatrice) preparo medicinali a base di erbe, e mentre faccio tutto questo scrivo romanzi, e leggo manuali di sopravvivenza di Bear Grylls. I miei non mi facevano mai uscire di casa, e il mio unico svago erano i libri. Ho imparato a leggere molto prima delle elementari, solo perché mi annoiavo e non sapevo come passare il tempo. Mio fratello era più grande di tre anni, e andava già a scuola. Quando arrivavano i suoi libri, sussidiario e libro di lettura, lui non li leggeva per tutto l’anno scolastico, io li avevo già letti di nascosto prima di novembre. (“Cosa fai col libro di tuo fratello? Mettilo via che glielo sciupi!” “Ma guardo solo le figure.” Palle. Li sapevo a memoria.) Va da sé che quando venne il mio turno di andare a scuola, mi annoiassi da matti. Loro leggevano Pinocchio, io leggevo Kipling. Loro leggevano I tre porcellini, io leggevo la vita di Pasteur e i cacciatori di microbi. Loro leggevano Piccole donne, io leggevo I Peccati di Peyton Place e Lolita. Loro leggevano Biancaneve, io ci davo già dentro con gli Urania e con Salgari. Non potrei vivere senza leggere o senza scrivere. Mio padre si divertiva a scrivere poesiole, raccontini, filastrocche e cambiava i testi alle canzoni facendole diventare spiritose. Niente di speciale, ma amici e parenti si divertivano alle sue trovate. Io sono cresciuta sapendo che fosse possibile farlo; era una cosa normale, e credevo che tutti lo potessero e lo sapessero fare. Andavo ancora alle elementari quando ho iniziato a farlo anch’io. E lo facevo bene. Ci sono rimasta male quando ho capito che gli altri, invece, non ci riuscivano. Scrivere è sempre stata la mia passione. Ho iniziato col diario, quando ero proprio piccola. Alle medie avevo già scritto varie raccolte di poesie e iniziavo a cimentarmi nei racconti. Ingenui, stupidotti, semplici… ma imparavo cosa si dovesse scrivere, e come farlo sempre meglio. Sono sempre stata spietata con me stessa, non mi sono mai crogiolata pensando di essere brava, se quello che facevo non era perfetto. Quali sono le mie passioni? Secondo gli psicologi, desideriamo principalmente ciò che abbiamo davanti agli occhi e non possiamo avere. Prima passione: la musica: niente soldi per i dischi? (All’epoca c’erano gli LP in vinile) Con il primo stipendio mi sono comprata una chitarra e le canzoni me le sono scritte da sola. Lo studio: avrei voluto fare tante di quelle cose, ma i miei mi volevano per forza ragioniera. Ho mollato la scuola e ho imparato di nascosto, sui libri, tutto quello che mi fosse possibile imparare. Lingue, scienza, filosofia, storia… anche per la patente ho studiato di nascosto. Costruire: bricolage. I primi mobili di casa mia li ho costruiti io. Scrivere: e quello che scrivevo doveva essere assolutamente bellissimo, perché sarebbe stato quello che avrei dovuto leggere io. Medicina ed erboristeria: a parte le vaccinazioni di legge, entrambi i miei figli non hanno mai visto un pediatra. Quando non hai soldi neanche per una scatola di aspirina, anche le medicine te le devi fabbricare da sola e sperimentare su te stessa prima di darle ai bambini. Viaggiare, a qualunque costo; perché, come dicevo prima, i miei non mi facevano mai uscire di casa. Le mie vacanze, per una decina di anni, sono state vagabondare per tutta l’Europa con la sola spesa della benzina, dormendo e mangiando in macchina, lavando le magliette e i jeans nel fiume e facendo la doccia con l’acqua scaldata al sole sul tetto della macchina durante le soste, lungo qualche fiume. Se avevi coraggio, una volta, nell’epoca hippie, si poteva fare… Adesso, credo sia troppo pericoloso; ma la voglia di ricominciare è fortissima. Mi sa che quando smetterò di lavorare, ripartirò. Mi troveranno morta sotto un ponte, ma vuoi mettere il divertimento?… Se questo è il prezzo, lo accetto in pieno. Col primo stipendio mi sono comprata una chitarra. Una vera schifezza, ma chissenefrega? Nell’epoca hippie, tutti suonavano e tutti ti potevano insegnare a suonare.La musica, per me è sempre stata l’eros più profondo. Uno dei miei ricordi più belli è dato da una notte passata a suonare con un certo Davide, incontrato durante un festival musicale. Due chitarre, due cuori. Mai più rivisto. Ma abbiamo suonato i Pink Floyd fino al mattino. Un giorno, (avevo solo diciassette anni) su una rivista musicale, trovo il bando di un concorso indetto dalla Baby Records: “Se non sei un cane e hai qualcosa di nuovo da dire, vieni e faccelo sentire.” I vincitori avrebbero inciso gratis. Avevo già scritto tante belle canzoni… Ok, mi dico! Vado, e mi fanno incidere! Giuro: non era presunzione ma ero certa delle mie capacità e potenzialità. Con la mia ingenuità di ragazzina e la mia “chitarretta”, schifosa col manico storto, vado e gli faccio ascoltare qualcosa. C’erano i “fratelli La Bionda”, come giudici; cantanti dell’epoca. Duemila partecipanti. Chi rimane, alla fine? Io e un certo Enzo Ghinazzi, passato poi alla gloria col nome d’arte di Pupo. I La Bionda mi chiesero come caspita facessi a suonare con quello schifo che avevo in mano, e risposi loro col massimo candore che non potevo permettermi altro… Mi hanno accompagnato in un bellissimo negozio di articoli musicali e mi hanno regalato una chitarra favolosa, che ho ancora adesso e venero come una santa reliquia. Ho inciso “Il mondo alla rovescia”, dieci canzoni. Era il 1977. Ma il mercato, di cantautori impegnati, ai tempi, era stracolmo. Mancavano, invece, cantanti per bambini; Cristina D’Avena non esisteva ancora, e volevano me per quella fascia di mercato. Anche perché, di filastrocche, potevo sfornarne anche cinque o sei al giorno con una facilità estrema. Ma non ho accettato. Cantavo cose impegnate alla De Andrè, che vado a cantare, i Puffi? Ma per favore! Mi sono divertita, ci ho guadagnato una bellissima chitarra, ma la cosa è finita lì. È stato un bel gioco, e basta. Mi sono sposata incinta per andarmene di casa, sposata coi vestiti che avevo addosso e basta. Sposata con un disgraziato, geloso e violento, pur di andarmene: una vita di stenti e d’inferno. Soldi per i libri non ce n’erano, dovevo pensare al bimbo, e si faceva fatica perfino a fare la spesa. E quando il mondo dove vivi non ti piace più, ne inventi un altro; le favole che ti racconti la sera per addormentarti e non pensare che non hai mangiato. I libri che volevo, ho iniziato a scriverli da sola. La storia che avresti sempre voluto leggere e nessuno ha mai scritto. Il tempo passa. Divorzio dal primo disgraziato e ne trovo uno peggiore. Io continuavo a scrivere. I figli sono diventati due. I lavori che ho fatto per sopravvivere sono diventati mille. Parrucchiera, cartomante telefonica, vendita porta a porta, baby sitter, dog sitter, stiratrice, cuoca a domicilio, lavori di bricolage domestico, autista privata, ricamatrice, stiratrice, ripetizioni ai ragazzi delle medie, badante, spesa a domicilio e tanti altri. Poi tornavo a casa e spaccavo la legna per la stufa, sbiancavo i muri, costruivo i mobili con sega, martello, cacciavite e black e decker; ho messo insieme un impianto elettrico, e durante tutto questo ho cresciuto i figli. I romanzi scritti sono diventati nove. Mai fatti vedere a nessuno, perché gli editori, se sono scritti a mano non li vogliono. Quattro anni fa ho trovato un posto come badante presso la suocera di un architetto. Un giorno questi mi dice che, per principio, non legge libri scritti da donne, in quanto li trova troppo melensi e sdolcinati. Gli porto uno dei miei lavori e gli dico: bene, leggi questo, l’ho scritto io. Nonostante fossero più di quattrocento pagine scritte a mano, l’ha letto d’un fiato. Poi mi ha regalato un vecchio computer che teneva in montagna e mi ha detto: copialo e presentalo a qualcuno. È veramente bello. I miei hobby? Medicina, psicologia, storia, erboristeria, lingue straniere. Incredibile, per una donna che ha conseguito solo il diploma di terza media. Forse so fare tante cose proprio perché a scuola non si impara niente… I miei idoli? Eddie Guerrero, Bear Grylls, Socrate, Gandhi, Wile Coyote, Valerio Massimo Manfredi, Piero Angela, Rey Mysterio, Zahi Hawass, Pink Panther, Luciano De Crescenzo, Nikola Tesla, Annibale, Konrad Lorenz, Roberto Giacobbo, Alessandro il Grande, Allen e Barbara Pease, Madre Teresa… elencati volutamente alla rinfusa, alternando il genere dei personaggi. Perché da tutti si può trarre qualche buon insegnamento, di cultura, di vita, di saggezza, di forza, o di autoironia. In mezzo secolo di vita ho collezionato una serie di sfighe impressionanti, ma non ne ho mai fatto un dramma. Anzi, ho sempre cercato di sdrammatizzare tutto, di riderci sopra, di trovare sempre il modo di tornare in pista, e di rialzarmi da ogni caduta. Se non affronti le avversità con una buona dose di spirito, potrai anche essere viva fuori, ma sarai morta dentro. Mi sveglio cantando, ho la casa invasa da uccellini selvatici che entrano ed escono senza paura (li nutro da anni) dalle finestre sempre aperte; tiro avanti facendo mille lavori, e ogni sera ringrazio Qualcuno di quello che ho avuto. “Qualcuno”, può essere chiunque vogliate voi: Dio, il Diavolo, Buddha, Topo Gigio, uno spirito protettore… tanto non sono credente. Credo solo che qualunque sfiga ti possa capitare, ci sia sempre e comunque qualcosa di cui essere grati.

GLI IMPEGNI DI ERIKA

Audiolibri. Per me hanno un potenziale tremendo. Finora sono stati relegati a prodotti di serie B, roba per ipovedenti o non vedenti, fiabe sonore per bambini… Eppure la gente non fa altro che girare con in testa cuffie e auricolari ascoltando musica in ogni situazione. E perché non ascoltare un libro e leggere anche quando si hanno le mani occupate, o in alternativa alla musica? Magari la gente si riavvicinerebbe alla lettura.

Sto giusto aspettando la realizzazione di “Tutti i doni del Buio” in versione audio, ma la lavorazione è parecchio in ritardo. Vi terrò informati. Se ne fossi soddisfatta andrei avanti a produrre l’audio anche degli altri romanzi. Sto ricominciando a scrivere canzoni, e qualcosa ho già postato sulla mia pagina. Sto terminando la copiatura di “Diamond il mio Miglior Nemico”, e quando sarà pubblicato inizierò a copiare “Shadir, i guerrieri ombra”

ERIKA E LA MUSICA

La musica, per me è sempre stata l’eros più profondo. Uno dei miei ricordi più belli è dato da una notte passata a suonare con un certo Davide, incontrato durante un festival musicale. Due chitarre, due cuori. Mai più rivisto. Ma abbiamo suonato i Pink Floyd fino al mattino. Un giorno, (avevo solo diciassette anni) su una rivista musicale, trovo il bando di un concorso indetto dalla Baby Records: “Se non sei un cane e hai qualcosa di nuovo da dire, vieni e faccelo sentire.” I vincitori avrebbero inciso gratis. Avevo già scritto tante belle canzoni… Ok, mi dico! Vado, e mi fanno incidere! Giuro: non era presunzione ma ero certa delle mie capacità e potenzialità. Con la mia ingenuità di ragazzina e la mia “chitarretta”, schifosa col manico storto, vado e gli faccio ascoltare qualcosa. C’erano i “fratelli La Bionda”, come giudici; cantanti dell’epoca. Duemila partecipanti. Chi rimane, alla fine? Io e un certo Enzo Ghinazzi, passato poi alla gloria col nome d’arte di Pupo. I La Bionda mi chiesero come caspita facessi a suonare con quello schifo che avevo in mano, e risposi loro col massimo candore che non potevo permettermi altro… Mi hanno accompagnato in un bellissimo negozio di articoli musicali e mi hanno regalato una chitarra favolosa, che ho ancora adesso e venero come una santa reliquia.

files delle canzoni: https://www.youtube.com/watch?v=lCzNYTVGMaI Il fondo della vita https://www.youtube.com/watch?v=fFCasxoy5nA Un paese chiamato Malinconia https://www.youtube.com/watch?v=GDA3dLEYPgw Il traditore https://www.youtube.com/watch?v=TWrDjHGEHQQ Bei tempi, vecchi tempi. http://www.youtube.com/watch?v=IoIlBltJU7w Stalking Song. L’ultima, Stalking Song, puoi mandarla alla Hunziker, se le piacesse ha la mia autorizzazione ad usarla come meglio le faccia comodo.

Partecipa a Sanremo Writers, con quel sorriso che la distingue, quell’umiltà che spiazza… poi al suo ritorno scrive

Il mio post del Dopo Sanremo:

IO SO CHI HA VINTO! VI SARESTTE ASPETTATI che parlassi della mia premiazione a Sanremo? E invece no. Vi parlerò di VITO PACELLI. Un ragazzo dal passato travagliato e difficile, che ha avuto la sfortuna di toccare il fondo vivendo, in passato, un periodo terribile. Ma ha avuto anche la – fortuna? No, la forza – di sapersi rialzare. Di dare un taglio a quello che l’avrebbe distrutto. Di ricominciare tutto daccapo, di rimettersi in gioco, di chiedere fiducia per poter ripartire con una nuova vita. Non solo. Tanti si sarebbero limitati al rimettersi in carreggiata, che già è un’impresa a dir poco titanica. Vito ha saputo fare di più e meglio. Ha creato dal nulla un’impresa che funziona in un’Italia che non funziona. Ha creato posti di lavoro senza dire nulla quando da anni ci prendono tutti in giro creando disoccupati, fallimenti e sucidi piuttosto che sanare qualcosa davvero. Ha fatto in modo che i sogni di centinaia di autori esordienti venissero realizzati. Ci ha dato concretezza in un paese che annega nelle chiacchiere. Ha saputo arrivare al cuore della Rai con un evento innovativo in festival in perenne agonia di idee e contenuti. Ha saputo ridarci la capacità di sognare, di vedere apprezzati i nostri lavori e di condividere la gioia su queste pagine. Ha regalato un sogno anche a me. Io sono onorata di conoscere questo grande uomo, di aver collaborato con lui, di avergli offerto un prodotto vendibile e appetibile, e di aver condiviso con lui e tutto il suo staff il bellissimo evento che è stato SANREMO WRITERS. Volete sapere in anteprima chi ha vinto? Ha vinto VITO. Con lui, abbiamo vinto anche tutti noi, suoi autori. Erika Corvo

https://www.youtube.com/watch?v=6vowuuWv-SY  intervista…Erika

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Di cosa parlano i tuoi libri? Devo per forza dar loro l’etichetta di fantascienza e il fantasy, ma io amo definirli Reality Fiction. Uso ambientazioni spaziali o contesti fantastici per poter parlare di argomenti molto, molto terrestri e molto concreti. I temi costanti sono ecologia, psicologia, azione, avventura, amore, scienza… Quello che voglio è che il lettore, terminata l’ultima pagina, si fermi a riflettere. Sui valori della vita, sui pregiudizi assurdi che ci hanno inculcato senza che nemmeno ce ne siamo accorti. Su quello a cui rinunciamo ogni giorno perché non sappiamo liberarci dagli stereotipi e dal vivere la vita che qualcun altro ci ha imposto.

Quanti ne hai scritti?

Finora nove, ma ne ho pubblicati solo quattro. Il prossimo in uscita è “Diamond, il mio Miglior Nemico”, il terzo episodio della serie spaziale con Brian Black protagonista.

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Dove possiamo trovarli? Li trovate su tutti i maggiori portali di vendita on line, in più sono ordinabili nelle librerie fisiche del circuito “La Feltrinelli”, “In Mondadori”, “Youcanprint”, e “IBS”.

Danza con il secolo

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Attraversare un secolo e farlo insieme ai grandi della storia: questo è stato il destino di Stéphane Hessel, l’uomo che con “Indignatevi!” ha scosso le coscienze del mondo. Alle spalle di quelle poche pagine che si sono trasformate in un richiamo generazionale e culturale, c’è una vita straordinaria. Nato nel 1917 da una famiglia di artisti e scrittori. Hessel ha vissuto la stagione della Resistenza a fianco di De Gaullle, ha partecipato ai grandi momenti della vita internazionale come la stesura della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, passando dall’Onu a Saigon. dall’Africa a New York. Ad animarlo sempre una splendida curiosità per gli altri e un esistenza prodiga di militanze. La vita di Hessel racchiude molte vite, narrate in questo libro con leggerezza, poesia e la forza di chi non smette di voler essere parte di un mondo che cambia.

Questo è uno di quei libri che farei leggere volentieri alle scuole superiori. Che uomo straordinario!!

Emi

La somma dei giorni

la somma dei giorniSono gli anni che seguono la morte della figlia Paula. Isabel Allende adotta la forma “diario” per fare la cronaca della famiglia, faticosamente riunita in California dal 1992 al 2006. I ricordi si intrecciano alle riflessioni sulla vita, sulla sua opera e sul mondo contemporaneo. Due leitmotiv danno coesione all’insieme: la relazione amorosa con il secondo marito Willie e l’ansia di costituire e difendere una grande tribù familiare. Con intelligenza e autoironia Isabel ci mostra le difficoltà di tenere insieme un clan variegatissimo e di dominarlo; in una sorta di messa a nudo delle proprie inclinazioni, ci dice che un’innata generosità può facilmente travalicare in esercizio di potere e controllo nelle altrui vite per modificarne il corso. Gli episodi teneri, burleschi si intrecciano a quelli tragicomici o drammatici e la narratrice esibisce una tolleranza imperturbabile per le passioni e un’intolleranza viscerale nei confronti dell’ingiustizia. Non mancano le acute riflessioni sull’incombere della terza età, sulle proprie debolezze, sulla fatica di sbagliare. Si esce dalla lettura con la sensazione di aver attraversato una grande galleria di ritratti familiari, di aver vissuto una cronaca di affetti che ci riguarda da vicino.

Lei è Isabel Allende Llona  2 agosto 1942 è una scrittrice cilena.Nel 1991 improvvisamente la figlia Paula, a ventotto anni, si ammala di una malattia rara e gravissima, la porfiria, che la trascina in un lungo coma. La madre Isabel non abbandona la figlia per tutto il tempo e rimane al suo capezzale; durante tutto questo tempo comincia a scrivere, raccontando i ricordi della loro vita insieme in una commovente autobiografia.

Nel 1992 perde la figlia Paula,   nel 1997, raccoglie alcune delle lettere di solidarietà e affetto ricevute da tutto il mondo nel libro Per Paula.  Il 10 febbraio 2006 ha partecipato alla Cerimonia di apertura dei XX Giochi olimpici invernali di Torino 2006 portando, insieme ad altre sette donne famose, la bandiera olimpica. Nel maggio 2007 è stata insignita a Trento della laurea honoris causa in lingue e letterature moderne euroamericane. È cugina della deputata cilena Isabel Allende Bussi. Nel 2009 pubblica L’isola sotto il mare. L’ultimo suo libro è intitolato Il quaderno di Maya ed è uscito nelle librerie nel 2011. Nel settembre 2010 è stata insignita con il Premio Nazionale Cileno per la Letteratura. ( fonte http://www.wikipedia.org)

Sicuramente un gran bel libro, lei una grande scrittrice, forse a tratti troppo triste, ma dopo la perdita della figlia il suo modo di scrivere cambia nettamente, rimane una grande professionista….

Buona lettura

Ale

Diario di scuola

DIARIO DI SCUOLA

Una confessione.

Un’attenta descrizione dei cambiamenti della società che influiscono sulla scuola fatta da chi è stato studente, professore e genitore ed ha vissuto nella scuola per tutta la vita.

La prima parte racconta l’esperienza di “studente somaro” dell’autore, fatta di paura di sentirsi non all’altezza.

Il nostro “somaro” è Daniel Pennac (pseudonimo di Pennacchioni), scrittore francese nato nel 1944 in una famiglia di militari, ci racconta la sua difficile esperienza scolastica; lui, ultimo di quattro fratelli tutti laureati, vede i suoi esordi scolastici come veri e propri fallimenti, importanti però per fargli capire come comportarsi soprattutto con i suoi studenti e con gli immancabili somari.

Il riscatto arriva dalla letteratura, dopo una carriera scolastica a dir poco disastrosa. Un moderno somaro che ha impiegato un’anno intero per imparare la lettera A e che ha conseguito la maturità a vent’anni compiuti.

Pessimo allievo, solo verso la fine del liceo ottiene buoni voti, quando un suo insegnante comprende la sua passione per la scrittura e, al posto dei temi tradizionali, gli chiede di scrivere un romanzo a puntate, con cadenza settimanale.

Per lui, come per molti altri, la situazione si è ribaltata con l’incontro di alcuni insegnanti innamorati della propria materia a tal punto da far diventare gli alunni “affamati di conoscenza”.

La narrazione ruota intorno alla domanda che lo scrittore si pone, come mai alcuni bambini soffrono così tanto all’idea di andare a scuola? La risposta stà nella paura delle domande che possono essergli rivolte.

Tutti noi abbiamo paura delle domande che ci potrebbero essere poste. Ci dimentichiamo che quel piccolo secondo necessario per rispondere è invaso da questa paura.

Secondo Pennac il compito dei professori è quello di aiutare i ragazzi a guarire da questa paura innata, compito fondamentale per poter insegnare qualcosa.[…]

L’autore mette inoltre in evidenza le figure di insegnanti moderni che pensano che il modello di studente sia quello che arriva a scuola, ascolta la lezione, risponde alle domane e va a casa pronto per fare i compiti, dimenticando invece che il vero compito dell’insegnante è quello di spiegare “come” imparare, far sentire la passione di ciò che si insegna, di saper ascoltare ed intuire desideri ed inclinazioni dell’alunno per tirare fuori il meglio da ciascun “somaro”.

Quando infine da studente diventa insegnante il suo scopo principale sarà cancellare le convinzioni degli “abitanti degli ultimi banchi” descritte benissimo da Pennac: “noi passiamo, i prof restanto”, “ sono negato a scuola e non sono mai stato che questo” .. Considerazioni che non fanno altro che far crescere la “passione del fallimento” o alla peggio la “vocazione alla delinquenza”.

Pennac mette così anche in evidenza la situazione delle banlieues francesi, simbolo dell’inefficienza del sistema scolastico nell’integrare i giovani provenienti da classi sociali diverse: temi attualissimi non solo in Francia.

La lettura è veramente coinvolgente, divertente, scorrevole ma soprattutto sicuramente ognuno di noi si identificherà almeno in una delle situazioni raccontate. Bello da far leggere ai propri figli se adolescenti, incoraggiante per loro ed anche per noi genitori.

Disponibile versione e-book.

Buona lettura.

Lucy

Open

Open«Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta. Per quanto voglia fermarmi non ci riesco. Continuo a implorarmi di smettere e continuo a giocare, e questo divario, questo conflitto, tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi appare l’essenza della mia vita…».
Andre Agassi

Uno dei piú grandi campioni di tennis di tutti i tempi si racconta senza pudore in un memoir che ha fatto scalpore nel mondo, non solo in quello del tennis.

La trama è avvincente, il libro è ben scritto, alcuni passaggi (soprattutto quelli riferiti alla descrizione dei match) sono veramente interessanti.

La vita di Agassi scritta come l’avrebbe scritta Andre. Eppure (limite mio) non riesco ad entrare totalmente in empatia con il protagonista….

forse perché simpatizzavo per Sampras?

Merita comunque una lettura.

Emi

Finchè avrò voce – Malalai Joya, la sua storia.

Malala

Noi ci siamo stati, abbiamo sentito la sua storia e ve la proponiamo..

Emi

Malalai era ancora poco più di una bambina quando i russi invasero l’Afghanistan nel 1979.

E aveva solo quattro anni quando la sua famiglia fu costretta a rifugiarsi nei campi profughi in

Pakistan. Poi c’è stata la guerra civile negli anni Novanta, la presa del potere da parte dei talebani,

la cosiddetta “guerra al terrore” degli americani. Oggi, che è una giovane donna di trent’anni,

Malalai Joya non ha conosciuto un solo giorno di pace in vita sua. Dopo il crollo del regime

talebano, Malalai ha avuto la possibilità di entrare a far parte dei delegati della Loya Jirga, il

gran consiglio afghano che avrebbe dovuto governare il nuovo corso degli eventi, ma che di fatto

non fa altro che appoggiare gli aguzzini di sempre; dopo le prime “libere” elezioni, si ritrova

seduta accanto ai signori della guerra che combatte da sempre. Lo sgomento non dura che un

attimo. Poi Malalai decide, consapevole che ci sono scelte che segnano una vita per sempre,

decide di non piegarsi alla legge del silenzio. Osa dare voce a chi non ha voce. Si alza e chiede la

parola. E proprio lei, una donna, dice le verità che nessuno aveva mai detto, osando denunciare

l’indenunciabile:

“Il mio nome è Malalai Joya della provincia di Farah, con il permesso degli stimati presenti, in

nome di Dio e dei martiri caduti sul sentiero della libertà, vorrei parlare un paio di minuti. Ho

una critica da fare ai miei compatrioti, ovvero chiedere loro perché permettono che la legittimità

e la legalità di questa Loya Jirga vengano messe in questione dalla presenza dei felloni che hanno

ridotto il nostro Paese in questo stato. (…) Essi sono coloro che hanno trasformato il nostro Paese

nel fulcro di guerre nazionali ed internazionali. Nella nostra società sono le persone più contrarie

alle donne, e quello che volevano… (clamori, si interrompe). Sono coloro che hanno portato il

nostro Paese a questo punto, e intendono continuare nella loro azione. Credo sia un errore dare

un’altra possibilità a coloro che hanno già dato tale prova di sé. Dovrebbero essere portati davanti

a tribunali nazionali e internazionali. Se pure potrà perdonarli il nostro popolo, il nostro popolo

afghano dai piedi scalzi, la nostra storia non li perdonerà mai”.

Malalai, il cui cognome non è Joya, scelto per difendere la sua famiglia e se stessa dalle continue

minacce che le arrivano, ha fatto del burqa un’arma, per diffondere la cultura, le scuole clandestine.

Malalai cammina nella polvere e nel sangue sulla sua terra, ma dà forza e speranza, lottando contro

l’ingiustizia, perché non è sola ma sa che “il suo popolo la difenderà”, lei che raccoglie gli orfani,

che prende su di sé le storie gli occhi delle vedove. Malalai che vive e che sa che per tante donne il

suicidio è l’unica strada per sfuggire a stupri e torture.

Malalai non può essere messa a tacere perché come scriveva Neruda “possono recidere i fiori ma

non fermare la primavera”. Malalai giovane e piccola donna, nata come profuga, costretta sin da

bambina a spostarsi di città in città dall’Afghanistan al Pakistan. Che conosce la fame gli stenti. Che

non ha casa. La donna che ha istruito tante altre donne. Che ha letto e studiato sotto le lampade di

una tenda o di una casa di fango. Che conosce il suo popolo che ha dato e sta dando la sua vita per

la voce la libertà del suo popolo.

Malalai conosce bene la morte, ha una inquietante familiarità e confidenza con essa, poiché la

incontra ogni giorno. Ma ha scelto la strada della verità. Del non compromesso; ha scelto per un

Afghanistan libero e democratico che non sia lo scacchiere di tanti interessi politici ed economici

“polvere negl’occhi del mondo”come lei stessa dice.

Malalai sa che le bambine vengono vendute, le donne anche anziane violentate e torturate, che una

delle tante regole dettate nel 1992 dai vari fondamentalisti è che non si dovesse “neanche sentire il

passo di una donna” perché in Afghanistan le donne non hanno diritto all’istruzione.

Una donna non ha nessuna possibilità di inserimento nella sfera sociale e tantomeno o lontanamente

in quella politica, una donna non può neanche uscire di casa se non ha accanto un uomo o un

parente di sesso maschile. La donna diventa spesso oggetto di scambio, baratto o addirittura

simbolo della vendetta di un potere maschile medievale e di terrore.

Malalai sa che nella guerra “è sempre la povera gente ha rimetterci”, come appreso dalle parole di

Brecht, appreso sulla sua pelle e su quella del suo popolo.

Ma Malalai è anche il simbolo della speranza. Di una possibilità. È la voce del suo popolo.

In aula, dopo il suo breve discorso, scoppia il putiferio. “Infedele”, gridarono le lunghe barbe.

“Prostituta”. Solo l’intervento di altre delegate evita il peggio. Da quel giorno, è oggetto di

continue minacce di morte e di continui tentativi di attentati. È stata infine espulsa illecitamente

dal parlamento dove era stata eletta. Ormai vive una vita blindata, cambiando casa ogni giorno, è

costretta a girare con il burqa, proprio lei che lo combatte da sempre.

Ci sembra opportuno lasciare che sia Malalai stessa a parlarci:

“ In Afghanistan abbiamo un detto che mi è molto caro: la libertà è come il sole, quando

sorge nessuno può fermarlo o nasconderlo” – scrive Malalai Joya – e conclude nell’introduzione

“ spero che questo libro e la mia storia diano un piccolo contributo al sorgere di questo sole

e spingano coloro che lo leggono, ovunque essi siano, a lottare per la pace, la giustizia e la

democrazia”.

Questo l’auspicio della scrittrice che, attraverso la sua storia, ha inteso dare voce ad un popolo, il

suo popolo – quello afghano – martoriato dalle guerre interminabili e da una indicibile sofferenza

affinché il mondo potesse realmente prendere coscienza di questo dramma anziché pendere dalle

labbra dei media occidentali che hanno distorto e mistificato la realtà dei fatti fino a trasfigurarla e

farci credere che quella da loro acclamata e diffusa fosse l’unica verità possibile. Per tale ragione,

risulta essenziale a nostro parere ascoltare direttamente le sue parole:

“Per me dire la verità non era una scelta; non cercavo notorietà o riconoscimenti, ma dovevo

parlare. Era il mio dovere: dovevo rispettare l’impegno preso con coloro che votandomi, avevano

fiducia in me. Avevo promesso loro che non sarei mai scesa a compromessi con i nemici dei diritti

umani e dunque non avevo scelta. Era questo il motivo principale per cui avevo sentito il bisogno

di candidarmi. Non a caso una delle mie citazioni preferite è tratta dalla Vita di Galileo di Bertold

Brecht “Chi non conosce la verità è soltanto un folle. Chi la conosce la verità e la chiama menzogna

è un criminale”.

Una voce alta e forte la sua che rimbomba dentro, fin nelle più profonde profondità dell’anima.

Quando mi capita di pensare al suo coraggio – una donna che ha praticamente la mia stessa età –

alla sua determinazione, alla forza e alla rinuncia di se stessa in nome della libertà e del suo popolo

e a difesa delle tante migliaia di donne madri bambine afghane, mi dico sempre che non si può

essere indifferenti. Credo che anch’io – ognuno di noi anzi – nel proprio piccolo può fare qualcosa.

Perché le donne afghane siamo anche noi. Perché sono migliaia le donne madri e bambine della sua

terra doppiamente vittime sia del conflitto internazionale sia delle “regole” misogine e di negazione

totale della sfera del femminile dei fondamentalisti. So che la sua voce non potrà più fermarsi.

Perché come lei stessa dice, nascerà sempre un’altra Malalai pronta ad impugnare la bandiera della

libertà.

Finché avrò voce è la storia di questa giovane donna e del suo paese, una cronaca non sempre di

facile lettura, ma riguardante la storia inedita di un paese per lo più ignoto, a noi occidentali. “È

raro che i giornalisti occidentali verifichino l’attendibilità delle favole confezionate per loro”, si

legge fra quelle pagine.

Malalai fa i nomi di coloro che sono legati ai vecchi regimi, talebani “riciclati” macchiatisi nel

passato di infami delitti. Ma non le basta: punta il dito sul Governo di Karzai, arrivato ufficialmente

al potere con le “libere elezioni”, ma in realtà fortemente voluto dagli americani e per niente

rappresentativo dei sentimenti del popolo.

Le pagine del suo sofferto libro raccontano le sofferenze delle donne afghane, vendute e stuprate

fino a vedere il suicidio come unica liberazione. Violenze che, leggendo Malalai, non sembrano

affatto finite con il regime talebano, ma ancora commesse e addirittura garantite dalle leggi di

Karzai (Una donna stuprata è considerata rovinata e impossibilitata a trovare marito e i suoi

famigliari arrivano al punto di ucciderla per cancellarne la vergogna).

La scrittrice afghana si sofferma con rabbia sulla coltivazione dell’oppio (il 93 per cento della

produzione mondiale proviene infatti da qui), favorita anche dagli Stati Uniti, sulla situazione della

stampa fortemente condizionata dai “signori della guerra” (Sayed Pervez Kambaksh sta ad oggi

scontando una pena di venti anni per aver fatto circolare un articolo scaricato da Internet).

Non vengono risparmiati neppure i governi e i media occidentali, Italia compresa: “Una volta ho

incontrato Massimo D’Alema e posso dire che dopo pochi minuti, ho capito perfettamente che non

avrebbe mosso un dito per aiutare il popolo afghano”, si legge nel libro.

Ma il grido più forte è contro gli Stati Uniti e la loro guerra al terrore, condotta paradossalmente

contro le stesse persone che avevano nel passato rifornito di armi, istruito e addestrato. Una guerra

che fa centinaia di vittime civili, delle quali nessuno parla mai. Sono le vittime afghane, quelle che

spesso vengono catalogate come “effetti collaterali” (nel 2007 il cronista italiano Mastrogiacomo

venne liberato, ma il giornalista che gli faceva da guida e il loro autista, entrambi afghani, furono

decapitati: che rilevanza hanno avuto ai nostri occhi occidentali?).

Una guerra che si nasconde dietro il pretesto dei cosiddetti diritti umani, ma che in realtà li calpesta.

Una guerra di posizione, senza via di uscita né speranza.

Il libro di Malalai è il grido di protesta di un popolo calpestato e umiliato, un ponte verso il futuro

senza dimenticare o rinnegare le tradizioni e l’Islam. Perché mentre George W. Bush dichiarava:

“Oggi le donne afghane sono libere”, la realtà era ben diversa: “Le donne sono libere di chiedere

l’elemosina per le strade protette dal burqa; sono libere di prostituirsi per sfamare le loro

famiglie; sono libere di vendere i figli per non vederli morire di fame; sono libere di suicidarsi per

affrancarsi da umiliazioni, miseria e disperazione”.

Questi sono i fatti, il resto è solo, per dirla con le sue parole, “polvere negli occhi del mondo”.

Fonte http://www.lafeltrinelli.it